fbpx

Metaverso, forse stiamo perdendo il focus

Ormai non passa un giorno senza che Tv, media e ovunque sui social media si parli di Metaverso e come spesso accade con le mode tech, la stragrande maggioranza delle informazioni non hanno alcun fondamento tecnico, veicolano informazioni sbagliate o comunque distorte, ma soprattutto non spiegano che allo stato attuale il Metaverso non ha alcuna utilità per la nostra società.

Esatto! Il Metaverso (in pratica una realtà virtuale condivisa tramite internet, dove si è rappresentati in tre dimensioni attraverso il proprio avatar) nel 2022 non è ciò di cui abbiamo bisogno.

Annunciare in pompa magna che un’azienda di moda ha deciso di investire nel Metaverso con titoloni che poi non hanno alcun riferimento pratico, serve solo a creare visibilità al brand, nient’altro. Puro, vecchio, banalissimo marketing. Stesso discorso vale quando si immagina la fruizione virtuale di spettacoli sportivi e culturali cavalcando l’hype delle esperienze immersive da casa.

Questi semplici esempi spostano il focus dalle reali necessità che oggi noi viviamo: abbiamo bisogno di aziende che comprendano che investire nell’ecommerce è questione di processi, competenze, logistica, sistemi integrati, non di bolle virtuali. Prima di “costruire” stadi virtuali rendiamoci conto che dopo anni di streaming video continuiamo a vedere le partite di calcio (Dazn) e basket (Discovery+) in modo scadente o comunque molto sotto la soglia della sufficienza.

Il ridicolo poi si sfiora ascoltando dirigenti politici, anche di un certo rilievo, parlare di nuove modalità relazione con i cittadini “per raggiungere in modo efficace un elettorato sempre più ideologicamente liquido e cangiante”. Suvvia, ma non richiedere più la fotocopia della carta d’identità via mail non sarebbe una cosa più utile che lo sbarco sul Metaverso? Far parlare finalmente gli uffici tra loro, integrando i dati senza chiedere ogni volta documenti agli utenti, non sarebbe un investimento mugliore?

Le mode in ambito tech ci sono sempre state e da sempre hanno dato linfa e impulso al processo innovativo, ma poi devono essere indirizzate verso attività e temi realmente utili, efficaci, altrimenti diventano bolle, le quali esplodono lasciando cocci difficili da ricostruire nel breve tempo.

L’innovazione tecnologica è vera innovazione solo se è prima di tutto innovazione sociale.

Quindi quando qualcuno ci rifila un nuovo termine, concetto, moda o fenomeno facciamo una semplice domanda: ci serve davvero? Tra le tante cose che ci sono da fare e mettere a punto questa è quella di cui abbiamo realmente bisogno? Non perdiamo il focus.

Il vaccino è come l’assicurazione

Qualche giorno fa mi hanno rubato l’auto. È stata la prima volta e la cosa mi ha fatto riflettere molto.
Per esempio tutti, e dico tutti, mi hanno chiesto se fossi assicurato e alla mia risposta affermativa: “meno male, dai, è stata una brutta esperienza, ma almeno eri assicurato.
Ogni volta sorrido perché se c’è una cosa che tutti odiano è proprio l’assicurazione, gli assicuratori e i balzelli da pagare. Salvo poi tirare un sospiro di sollievo dopo un incidente.
Capiamoci. Si tratta di un evento normale, nel senso di umano, è cosi per tutti. Io di queste cose ci capisco poco, ma credo sia una questione che riguarda il nostro cervello e i concetti di tempo e percezione del rischio.
Prima di un incidente il nostro cervello tende a rimuovere gli eventuali rischi e a posporre nel tempo il problema: siamo sicuri che non accadrà e, nel caso che prima o poi dovesse accadere, quando sarà ci penseremo.
Da questo banale ragionamento ho pensato che più o meno facciamo la stessa cosa con tutto: i compiti a scuola, gli esami all’università, le lavatrici da fare, i panni da stirare e ovviamente i #VACCINI.
Ecco, il vaccino è come un’assicurazione prima di un incidente.
A differenza delle medicine che vengono assunte dopo l’insorgere della malattia (post incidente), i vaccini si portano dietro tutte queste menate neuro-psicologiche della propensione al rischio, percentuale costi/benefici, nesso causale ed effetti nel tempo.
In altre parole tutti coloro che si trovano in terapia intensiva a pancia sotto – se potessero – tornerebbero indietro per vaccinarsi e avere anche una possibilità in più di non doversi trovare in quella situazione. Ma ormai il tempo è passato e il cervello ragiona in questo modo perché sono cambiati i valori su cui basa le proprie decisioni.
Il nostro cervello è una macchina meravigliosamente complessa, ci fa credere che Caino e Abele abbiano dato avvio all’umanità (anzi solo Caino) e ci fa dubitare dei progressi della scienza.
È così, inutile arrabbiarsi con i no-vax, l’evoluzione umana da millenni è una corsa sulle montagne da russe. Le assicurazioni, i vaccini e le lavatrici da fare sono solo un modo per distinguere chi si evolve più in fretta e chi invece verrà ricordato dalla storia come un freno all’evoluzione della specie.
Ps. pure a me non piace pagare l’assicurazione e fare le lavatrici, ma ci tengo a non essere ricordato come un deficiente dai miei pronipoti.

Focus sul Parco Archeologico di Pompei

Intervista al prof. Massimo Osanna gentilmente rilasciata per il libro “Fundraising e marketing per i Musei“, Rubbettino Editore, anno 2020.

Massimo Osanna è professore ordinario di Archeologia classica all’Università di Napoli Federico II. Ha insegnato nell’Università della Basilicata, a Matera, dove ha diretto la Scuola di Specializzazione in Beni Archeologici; è stato visiting professor in prestigiosi atenei europei e ha promosso scavi e ricerche in Italia meridionale, Grecia, Francia. Dal 2014 al 2015 ha diretto la Soprintendenza Speciale di Pompei e nel 2016 è stato nominato direttore generale del Parco Archeologico di Pompei. Nel 2020 è stato nominato Direttore Generale dei musei del MiBACT.

Perché per un museo è importante il supporto del fundraising?

Un istituto culturale ha il compito di perseguire numerose finalità mediante le attività di conservazione, tutela, valorizzazione, ricerca e promozione dello sviluppo della cultura, al fine di garantire sempre la fruizione pubblica. Nel caso specifico del Parco Archeologico di Pompei, costituito da molteplici aree archeologiche e sedi museali, esso si trova a fronteggiare tutte le attività elencate, con eguale rilevanza, per ciascun sito afferente ad esso. Può accadere che, al fine di preservare e garantire l’integrità del patrimonio culturale, le attività di restauro, di manutenzione, di tutela e conservazione rivestano un peso rilevante rispetto alle altre. Il sostegno dei privati è auspicabile e acquista un peso determinante per il miglioramento e il potenziamento delle condizioni dell’accessibilità sia fisica che culturale alle aree archeologiche, per il sostegno di iniziative volte al servizio della società e del suo sviluppo. Questa opportunità consente agli istituti culturali di ricevere una spinta nella progettazione programmata di attività che non abbiano necessariamente il carattere di urgenza; di dare un’accelerazione alla promozione di iniziative che siano in linea con le esigenze culturali del momento, di determinate fasce di età e di pubblici diversi; di poter disporre di servizi culturali mancanti tra le offerte al pubblico, ma anche di potenziare la ricerca che spesso subisce gravi rallentamenti a fronte delle esigenze di tutela.

Perché un’azienda dovrebbe sostenere le attività o i progetti di un museo?

L’arte ha un incredibile impatto sugli individui, genera valore, desta consensi e curiosità; è dotata di un forte intrinseco potere attrattivo, per la sua capacità di agire direttamente sui comportamenti riveste un ruolo sociale ed educativo. Le aziende che decidono di sostenere progetti culturali ne sono consapevoli ma le motivazioni sono molteplici e diversificate.

Si decide di investire in cultura per rafforzare la Corporate Identity, per riposizionare il proprio brand, per attrarre altri target e pubblici. Ma può anche capitare che il progetto culturale sostenuto sia in linea con la mission dello sponsor. Diversa considerazione va fatta, invece, per gli imprenditori locali, alcuni dei quali sono spinti dal sentimento di voler restituire e soprattutto di rivestire un ruolo, dinanzi allo sguardo della comunità, nell’ambito della valorizzazione e della costruzione di processi socio-culturali del territorio di appartenenza.

Stiamo vivendo un periodo di grandi cambiamenti economici e sociali, grandi sfide ci attendono soprattutto per quanto riguarda la sostenibilità ambientale: secondo lei qual è il ruolo che i musei devono svolgere in un contesto del genere?

I musei e gli istituti culturali svolgono un ruolo strategico presso le comunità del territorio. Essi rappresentano i luoghi per la costruzione di identità e sono in grado di attivare forme di partecipazione attiva da parte della cittadinanza. Per questo motivo, il tema della sostenibilità ambientale va inquadrato nell’ambito del più ampio scenario dello sviluppo sostenibile della società, obiettivo che rientra nella mission del Parco Archeologico di Pompei.

Grazie alla rilevanza scientifica e culturale, i musei rappresentano punti di riferimento per le comunità del territorio, presso le quali godono di credibilità e di autorevolezza a seguito della funzione educativa che essi assolvono. I musei, dunque, assumono il ruolo di educatori sociali anche in merito al benessere della società e del suo sviluppo.

Per quanto riguarda le sfide in atto sulla sostenibilità ambientale e sull’emergenza climatica, è necessario che gli istituti culturali diventino essi stessi sostenitori di best practices attraverso la riflessione e l’innovazione dei modelli di gestione e funzionamento.

D’altronde i recenti cambiamenti climatici compromettono seriamente la salvaguardia del patrimonio culturale, la cui intrinseca vulnerabilità viene amplificata dalla violenza e all’imprevedibilità degli estremi fenomeni atmosferici. Si tratta, dunque, di un rischio che va fronteggiato anche dai soggetti preposti alla tutela dei beni culturali. Ma l’iniziativa di un solo soggetto non è sufficiente. I musei possono diventare luogo di raccolta, di divulgazione e di interazione delle azioni degli enti preposti alla definizione di politiche dello sviluppo sostenibile e di quelle dei soggetti privati che operano nel territorio. Soprattutto essi hanno la capacità di sensibilizzare le comunità di riferimento alla rigenerazione dei comportamenti individuali, attraverso la rilettura e la narrazione dei modi in cui queste ultime si sono relazionate nel tempo con il territorio di appartenenza.

Stiamo vivendo un periodo di grandi cambiamenti economici e sociali, grandi sfide ci attendono soprattutto per quanto riguarda la sostenibilità ambientale: secondo lei qual è il ruolo che i musei devono svolgere in un contesto del genere?

I musei e gli istituti culturali svolgono un ruolo strategico presso le comunità del territorio. Essi rappresentano i luoghi per la costruzione di identità e sono in grado di attivare forme di partecipazione attiva da parte della cittadinanza. Per questo motivo, il tema della sostenibilità ambientale va inquadrato nell’ambito del più ampio scenario dello sviluppo sostenibile della società, obiettivo che rientra nella mission del Parco Archeologico di Pompei.

Grazie alla rilevanza scientifica e culturale, i musei rappresentano punti di riferimento per le comunità del territorio, presso le quali godono di credibilità e di autorevolezza a seguito della funzione educativa che essi assolvono. I musei, dunque, assumono il ruolo di educatori sociali anche in merito al benessere della società e del suo sviluppo.

Per quanto riguarda le sfide in atto sulla sostenibilità ambientale e sull’emergenza climatica, è necessario che gli istituti culturali diventino essi stessi sostenitori di best practices attraverso la riflessione e l’innovazione dei modelli di gestione e funzionamento.

D’altronde i recenti cambiamenti climatici compromettono seriamente la salvaguardia del patrimonio culturale, la cui intrinseca vulnerabilità viene amplificata dalla violenza e all’imprevedibilità degli estremi fenomeni atmosferici. Si tratta, dunque, di un rischio che va fronteggiato anche dai soggetti preposti alla tutela dei beni culturali. Ma l’iniziativa di un solo soggetto non è sufficiente. I musei possono diventare luogo di raccolta, di divulgazione e di interazione delle azioni degli enti preposti alla definizione di politiche dello sviluppo sostenibile e di quelle dei soggetti privati che operano nel territorio. Soprattutto essi hanno la capacità di sensibilizzare le comunità di riferimento alla rigenerazione dei comportamenti individuali, attraverso la rilettura e la narrazione dei modi in cui queste ultime si sono relazionate nel tempo con il territorio di appartenenza.

Quali sono le tecniche vincenti per fidelizzare il proprio pubblico e conquistarne di nuovi magari di diverse fasce di età?

 La tecnica determinante e vincente è l’ascolto. Esiste una grandissima comunità desiderosa di sapere e di sentirsi parte della cultura del proprio territorio. La cultura acquista più consenso in un territorio quanto più si fonde con esso senza creare alterità. Questo comporta saper adottare linguaggi adeguati e nuove tecniche di narrazione, ma anche generare nuovi stimoli; significa saper essere flessibili ed organizzare percorsi culturali ed educativi a più livelli. Il verbo “educare” non è solo sinonimo di insegnare ma anche di formare. Pertanto l’educazione deve facilitare processi attraverso i quali le persone arrivino ad educare sé stesse. Un museo riesce a fidelizzare il proprio pubblico quando è capace di creare sentimento di appartenenza ad uno spazio fisico o metaforico, quando diventa il punto di riferimento di una comunità che individua in esso una leva per la crescita culturale e socio-economica del proprio territorio.

Breve ragionamento sulla trasformazione digitale

Si fa un gran parlare di trasformazione digitale, adozione di soluzioni innovative e framework basati su architetture e servizi in cloud. Tutte cose sicuramente utili e auspicabili. Ci giochiamo i prossimi vent’anni più o meno ed anche per questo tanta attenzione mediatica e politica stanno agitando, speriamo positivamente, le acque.
Con gli amici di Fare Digitale ne parliamo da anni di questi argomenti, spesso come dei novelli Don Chisciotte, Sancho Panza e i famosi mulini al vento; e proprio come i protagonisti ci siamo più volte trovati a battagliare contro i giganti della burocrazia italiana, della mancanza di cultura digitale, delle rendite di posizione che verrebbere smantellate dalla trasformazione digitale, che in realtà è una vera e propria trasformazione sociale.

Ma come rendere tutto questo realtà? Da dove partire per passare dalle parole ai fatti?
Alcuni credono, e anche io mi sento parte di questo gruppo, che particolare attenzione vada rivolta alle competenze – hard e soft – necessarie per dare spinta prima e linfa dopo al processo di digitalizzazione.

Viviamo un periodo di profonde trasformazioni in cui la pervasività del digitale determina nuove modalità di vita ad ogni livello. È un cambiamento epocale in cui si delineano nuovi fondamenti culturali: sistemi relazionali basati su network e molteplicità sincronica, lavoro che si configura sempre più come cognitivo, schemi ripetitivi dei processi lavorativi sostituiti dalla continua innovazione. Ed è quindi ovvio e consequenziale che le competenze richieste siano in evoluzione e sempre più pietra angolare del processo di cui stiamo discutendo.

Nella digital society il capitale umano ha un valore strategico e lo avrà sempre di più nei prossimi dieci anni e non solo per tutto ciò che concerne le ICT, ma anche e soprattutto perché è un discorso trasversale a tutti i settori dell’economia. Da un lato quindi dobbiamo fare in modo che i nostri giovani si avvicinino a lauree e diplomi tecnici per aumentare il numero di esperti informatici con competenze avanzate, ma contemporaneamente dobbiamo creare anche una platea, numerosa e competente, di “esperti non tecnici” che devono utilizzare app e piattaforme, comprenderle a fondo per sfruttare tutto il potenziale, dare le linee di indirizzo ai primi che poi dovranno svilupparle e realizzarle.
La bella ricerca Digital @University realizzata del team di Gianluca Arnesano in Fare Digitale va proprio in questa direzione: la prima indagine sulla formazione digitale nel sistema universitario italiano. La formazione, la valorizzazione del capitale umano, la riqualificazione delle competenze sono prioritari e devono essere permanenti per poter essere di supporto effettivo allo sviluppo economico dell’intero paese.

Sembra un paradosso, e forse lo è davvero, ma le competenze digitali oggi in Italia sono una merce rara. In una società che vuole essere proiettata verso la trasformazione digitale si tratta dell’ennesimo ostacolo che ci rende poco competitivi all’interno dello scenario globale.

Trovandoci in questa condizione è necessario allargare lo sguardo e porsi una mission ambiziosa: fare cultura digitale.

Il digitale non è solo codice. Ogni settore ha una dimensione immateriale. Ogni lavoro, ogni professione da qui in avanti (tralasciando il fatto che siamo indietro di qualche lustro) non potrà prescindere dal digitale.

Per dare una forte accelerata sul digitale occorre però investire su chi ha le competenze per abilitarlo. Non solo quindi developers, ma anche professionisti di materie non STEM coinvolti nei processi ICT e nelle iniziative di trasformazione digitale. Servono urbanisti digitali per indicare cosa serve per rendere smart le nostre città e di agrotecnici innovatori per migliorare il rendimento del settore agricolo. Figure a cavallo tra tecnologia e business, esperti di settore e capaci di leggere dati e impostare algoritmi.

Più cultura digitale, ma anche la forte necessità di ripensare il modello di leadership e management in ottica digitale adottando criteri oggettivi, produttivi e sostenibili, sapendo identificare anche i lati oscuri e gli aspetti più problematici legati alla trasformazione digitale.
La sfida è epocale, me ne rendo conto. Non è semplice avviare processi di valorizzazione di capacità e competenze non chiaramente misurabili, o perlomeno non misurabili con i canoni aziendali tradizionali. Togliere i faldoni e eliminare la carta è solo la punta dell’iceberg (attenzione ai venditori di fumo e ai fantomatici guru digitalizzatori). La partita si gioca nel dotare il sistema paese di un capitale umano adeguato per la trasformazione digitale, nello sviluppo di un mindset digitale capace di cogliere tutti i benefici e di evitare gli ostacoli. Tutto ciò però richiede investimenti, visione, coraggio e cambiamenti strutturali e culturali non facili e non realizzabili in tempi veloci, o almeno non così veloci da permetterci di stare al passo con le dinamiche di diffusione globale dell’innovazione tecnologica e dei modelli economici che al digitale sono associati. Il rischio di perdere un’opportunità storica è reale, ma non per questo dobbiamo gettare la spugna ancor prima di scendere in campo.

La sfida è epocale, me ne rendo conto, ma abbiamo l’obbligo di provarci mettendoci tutto l’impegno e la forza che abbiamo in corpo.

Il ruolo dell’innovazione nella società digitale

L’esame di Sociologia è stato uno dei più belli di tutto il corso di studi (Scienze Politiche, ndr). Era il periodo dei fiammanti G7 a Napoli e Genova, la globalizzazione, le ultime (?) rivolte sociali, in qualche momento davvero si aveva la sensazione di poter cambiare il mondo. E poi ero un giovane pischello, mi sembrava tutto così meravigliosamente stimolante.

In tutto questo marasma, i concetti che ho studiato in quel periodo hanno segnato – inconsapevolmente – gran parte del mio percorso professionale. Nelle piccole e piccolissime cose. Semplici concetti, che però mi hanno aperto mondi e riflessioni. Uno di questi istanti illuminanti fu sicuramente durante una lezione su Schumpeter e il ruolo dell’innovazione nell’economia industriale moderna. Boom, una luce che lì per lì era solo uno scalino per salire a guardare più in alto, ma che poi si è rivelata una pietra angolare di tante mie scelte personali e professionali. Ma facciamo un passo indietro.

Schumpeter è stato il primo economista che ha studiato in modo ampio, sistematico ed approfondito il ruolo dell’innovazione nelle moderne economie industriali: Teoria dello sviluppo economico (1912) e Capitalismo, socialismo e democrazia (1942) sono dei capisaldi del pensiero economico moderno.
Il pensiero di Schumpeter si basa sul concetto che l’innovazione è la determinante principale dell’evoluzione industriale e dello sviluppo economico. Ed in quest’ottica chiarisce in maniera netta le differenze tra invenzione, l’acquisizione di conoscenze
scientifiche e tecnologiche che possono anche non essere direttamente applicate alla produzione, e innovazione, che consiste in “nuove combinazioni di mezzi di produzione, cioè nell’introduzione di nuovi beni o nuovi metodi di produzione, nella creazione di nuove forme organizzative, nell’apertura di nuovi mercati” come affermato da Schumpeter ne Il governo imprenditoriale del 1934.

In parole più semplici se un’idea, un prodotto o un processo non è mai stato realizzato prima siamo in presenza di un’invenzione. L’implementazione della stessa idea o prodotto o processo invece la definiamo con il nome di innovazione. L’invenzione è legata alla creazione, innovazione consiste nell’aggiungere valore o apportare una modifica all’esistente. Questa distinzione assume grande importanza nella società digitale, perché se ogni aspetto della vita sociale capitalistica (quella studiata da Schumpeter) era sottoposto ad una trasformazione continua, oggi la velocità delle trasformazioni a cui siamo soggetti ha raggiunto ritmi che non hanno termini di paragoni.

Il termine esatto adottato da Schumpeter fu distruzione creativa, ossia il processo di mutazione industriale che rivoluziona incessantemente la struttura economica dall’interno, distruggendo senza sosta quella vecchia e creando sempre una nuova. Ispirandosi alle concezioni dell’economista francese Léon Walras e in parte anche alle teorie dell’evoluzione della specie di Darwin, Schumpeter spiega come i sistemi macroeconomici siano talvolta, in determinate fasi temporali, soggetti a delle profonde mutazioni a cui le imprese si devono obbligatoriamente adattare per sopravvivere. Attenzione le imprese, non lo Stato. Infatti in questo scenario è l’imprenditore a rappresentare la variabile attiva responsabile dello sviluppo tecnologico e ecnomico tramite l’introduzione di numerose innovazioni (chiamate anche innovazioni a grappolo) che come abbiamo visto prima possono essere la produzione di un nuovo bene o un nuovo modo di produrre,  la creazione di un nuovo servizio l’apertura di un nuovo sbocco sul mercato e così via.

Schumpeter sviluppa quindi la concezione dell’imprenditore innovatore, che introduce nel sistema a intervalli regolari innovazioni che creano e alimento lo sviluppo e distruggono tutto ciò che ormai è obsoleto, per poi creare un nuovo sistema sempre più efficace ed efficiente del precedente e così via. Alla fine viene a formarsi un vero e proprio circolo virtuoso di costante evoluzione e distruzione dei macrosistemi economici.

Tale concetto sta alla base del sistema capitalista ed è contenuto in una delle più famose teorie di Schumpeter, ovvero quella della “Distruzione Creativa”.

L’innovazione schumpeteriano nell’era digitale pandemica

La pandemia che stiamo vivendo é potenzialmente una di quelle fasi temporali citate da Schumpeter in cui i sistemi si trasformano e i cicli economici passano da una situazione di recessione ad una di espansione, la quale fa procedere ad un’ulteriore livello lo sviluppo tecnologico e crea nuove organizzazioni economiche più efficaci delle precedenti. O almeno questa è la speranza. Siamo in presenza di un cluster innovativo con un impatto sociale e economico molto forte dal quale stanno nascendo nuovi settori produttivi, nuove modalità di lavoro, nuovi processi organizzativi.

In più, come sempre accade l’innovazione porta con sè anche una conseguente conversione nella composizione della domanda che ultimamente è stata ulteriormente accelerata dai vari lockdown come conseguenza dei tanti divieti a cui siamo stati sottoposti, alle modalità di accesso ai servizi divenute improvvisamente esclusive, alle nuove abitudini lavorative con la diffusione del remote working o della didattica a distanza. La pandemia ha intensificato il processo di distruzione creativa, accelerando trend già esistenti la cui evoluzione sarebbe probabilmente durata ancora molti anni, anziché pochi mesi. La speranza è che la distruzione (creativa) economica conseguente alla crisi pandemica sia così profonda da potersi trasformare in un enorme salto evolutivo per l’intera umanità.

Le macerie lasciate sul campo sono enormi e devastanti, aziende fallite e disoccupazione ai massimi storici, tuttavia questo scenario che al momento ci appare apocalittico, se compreso e indirizzato, potrebbe avere risvolti positivi epocali.