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Post Social Media Era

Facebook, Instagram e Twitter non sono morti, ma ormai è evidente che le persone preferiscono trascorrere il tempo online in maniera molto diversa da come accadeva sui social negli anni Dieci. Il report Rival IQ ce lo conferma chiaramente:

  • i tassi di coinvolgimento sono in netto calo, addirittura IG ha registrato -30%
  • la frequenza di pubblicazione è crollata di oltre il -20%
  • Twitter ha chiuso l’ultimo trimestre del 2022 con una perdita dei ricavi del 35%
  • per la prima volta dopo circa 20 anni Facebook perde utenti

Sintesi: il modello tradizionale dei social media non è più attrattivo sia tra le generazioni più giovani, che non ne hanno mai capito davvero il fascino, sia tra chi è stato un early adopter e oggi ha sempre meno voglia di usarli, se non in modo passivo.

 

«Sono sicura di non essere l’unica utente che si è ritrovata a rifuggire dall’abitudine molto pubblica, spesso performativa e persino stancante, di pubblicare regolarmente aggiornamenti su Facebook e Instagram» (Lauren Goode – Wired)

A mio parere ciò sta accadendo perché sta venendo a galla una contradizione di fondo che ci portiamo indietro da sempre: all’inizio i social sono nati con lo scopo di collegare le persone, farle ritrovare dopo tanto tempo (quanti compagni di scuola rivisti grazie a Facebook) e infatti si utilizzava il termine Social Network. Poi ad un certo punto – per vari motivi tutti legati a profitti e business – le piattaforme hanno virato dal networking al publishing, offrendo alle persone la possibilità di pubblicare contenuti e raggiungere il pubblico più ampio possibili ben oltre le loro reti di contatti diretti. Ed ecco che siamo passati da Social Network a Social Media.

Siamo nati come puntini da interconnettere e poi ci siamo trasformati in creatori di contenuti.
Ultimamente a questa dinamica di lungo periodo se sono aggiunte altre tre davvero dirompenti: la noia, la sovraesposizione del dolore, l’esigenza d’approfondimento.

1. Noia

Nati come “luogo” di svago e divertimento i social hanno esaurito la loro forza originale; è davvero raro trovare contenuti divertenti, ancora più raro che una navigazione social ci sorprenda, quasi impossibile che una campagna social sia così dirompente da scavallare in tv o in radio come accadeva 5 o 10 anni fa. Tanto è vero che i giovani, cioè il target che ha voglia di divertirsi, sui social tradizionali non ci sono.

2. Sovraesposizione del dolore

Poiché le persone non frequentano più i social per divertirsi, poiché noiosi, gli algoritmi hanno iniziato a premiare in modo sproporzionato le emozioni opposte: dolore, rabbia, fallimento dando una visibilità enorme a tutta una serie di contenuti morbosi che parlano di malattia, morte, violenza e sofferenza. Seguendo la scia della tv del dolore questa strategia social all’inizio ha pagato molto bene. Oggi non più. Le persone sono stufe di trovare ogni giorno nel proprio stream notizie di questo genere.

3. Approfondimento

La rinascita delle newsletter e la rivincita dei post lunghi è il chiaro sintomo di un’esigenza che abbiamo per troppo tempo tenuta nascosta in soffitta: per capire qualcosa bisogna approfondire, prendersi del tempo, ragionare e metabolizzare. Tutti comportamenti osteggiati dalle piattaforme social che invece hanno bisogno, per sopravvivere e crescere, di instant marketing, contenuti veloci, tante ads e poche chiacchiere.


La tendenza quindi è chiara però attenzione a cantare il requiem. Anche se le piattaforme principali non sono più di tendenza ciò non significa necessariamente che perdano di longevità. Facebook potrebbe sembrare morto perché i giovani non si sognerebbero mai, oggi, di postare un album di foto di una serata di festa, tuttavia ci sono ancora circa 2 miliardi di persone in casa Zuckerberg.

Per dirla in breve siamo ormai entrati nell’Era Post Social Media, ma come sarà realmente questa ERA lo scopriremo solo vivendola.

Post Social Media Era
Post Social Media Era

Crowdfunding culturale: origini e prospettive

Il crowdfunding culturale esiste grazie al digitale. O meglio esiste grazie alle opportunità, agli strumenti, alle dinamiche sociali e alle relazioni generate nella digital society.

Il crowdfunding è sempre esistito, intendiamoci, ma la sua forza e la sua utilità ha preso forma solo quando i social network, le tecnologie digitali e in particolare le piattaforme web che consentono la raccolta di denaro si sono evoluete e hanno creato le condizioni per la sua diffusione e efficacia.

Il termine crowdfunding viene dall’inglese crowd folla e funding finanziamento ed è possibile definirlo come un processo di finanziamento dal basso: un gruppo di persone decide di mettere in comune il proprio denaro per sostenere una buona causa. Il digitale e le piattaforme web sono gli strumenti che permettono l’incontro tra i soggetti che devono raccogliere fondi e gli eventuali sostenitori/donatori. Se questo processo viene organizzato e promosso da un’istituzione culturale – organizzazioni che per loro natura sono particolarmente innovative, con un forte impatto sociale e in grado di contaminare altri settori in maniera creativa – ecco che siamo in presenza del cosiddetto crowdfunding culturale.

Senza dubbio stiamo parlando di uno strumento che negli ultimi tempi va “molto di moda“.

Tanti lo sponsorizzano, tanti sbandierano campagne formidabili, in realtà bisogna ammettere che (in Italia) non abbiamo capito ancora bene a cosa serve e come funziona, tanto è vero che i casi di reale successo si contano sulle dita di mezza mano.

Il problema vero è che il crowdfunding viene tirato fuori come il coniglio dal cilindro quando le organizzazioni hanno bisogno di soldi. Niente di più sbagliato. Il crowdfunding è davvero efficace solo se l’organizzazione è già predisposta ad attività di fundraising e la sua comunicazione è orientata alla richiesta di sostegno. Non sono cose che si improvvisano. Le giuste motivazioni che invece dovrebbero spingere i musei alla scelta del crowdfunding culturale sono le opportunità di branding e marketing legate a queste attività, certamente anche la fattibilità economica e gli obiettivi finanziari, ma come prima cosa deve esserci la forte volontà di creare e/o di ampliare una community di fiducia, in coerenza con la mission del museo.

Il processo dal basso del crowdfunding ha come obiettivo proprio di rafforzare in modo più esteso e capillare il senso di appartenenza della comunità al museo e alla sua progettualità e consente di accendere la curiosità e l’interesse dei non abituali frequentatori, risultando particolarmente efficace per i musei più piccoli e quindi bisognosi di cure, attenzioni e sostegno.

In altre parole il crowdfunding culturale non può e non deve essere inteso come mero strumento finanziario, ma anche e soprattutto come leva di marketing, comunicazione e branding a sostegno dei musei. Il crowdfunding, se inserito in maniera fluida nella strategia di gestione del museo, è certamente un acceleratore di un processo di rete, digitale e fisica, che lega l’istituzione alla propria comunità, visitatori, stakeholder, sostenitori e sponsor che abitano l’ecosistema culturale.

Queste considerazioni, molto meglio articolate dall’amico e docente di fundraising Raffaele Picilli, è possibile trovarle anche nel libro “Fundraising e marketing per i musei” edito da Rubbettino che abbiamo scritto nel 2020 nel quale raccontiamo anche vari esempi di campagne di crowdfunding culturale.

crowdfunding culturale

In poco più di 100 chilometri

Sono esattamente 115 i chilometri che separano la Reggia di Caserta dal Parco Archeologico di Paestum. In altre parole in poco più di 100km in Campania abbiamo un numero incredibile di luoghi storici, naturali, siti culturali, museali e città come probabilmente nessun altro luogo al mondo.

Ci vorrebbero settimane, se non mesi, per visitarli e ammirarli tutti. Dalla Reggia di Caserta ai parchi archeologici di Pompei, Ercolano, Oplonti, Cuma. Dalla costiera amalfitana a quella cilentana. Le tre isole, il Vesuvio, Napoli, Salerno, Positano e vabbè potrei continuare a lungo.

Eppure per quanti turisti arrivino sono sempre meno di quelli che vanno in Francia o Spagna. Per quanto Napoli sia bella accoglie meno turisti di Cracovia o Creta. Per quanto Pompei ci sembri invasa da turistia accoglie meno della metà dei turisti del museo astronomico di Washington (bello, per carità, però dai).

La risposta sta in alcuni fattori che niente hanno a che vedere con la #bellezza perché noi siamo pieni di bellezza.

I fattori che gli altri hanno e noi no sono l’organizzazione maniacale, la programmazione, la visione, la competenza decisionale inversamente proporzionale all’incapacità politica.

Tutto ciò ci pone in posizione di inferiorità nei settori del marketing, della programmazione, dei servizi alla persone, accoglienza, accessibilità, innovazione digitale e via discorrendo.

Non vorrei sembrare pessimista, non lo sono per nulla, ma cercando di essere obiettivi possiamo dire che abbiamo infinite potenzialità ma bassissime possibilità di realizzarle in queste condizioni.

Se volete possiamo parlarne e approfondire, ma se non partiamo dalle nostre lacune non potremo mai raggiungere gli obiettivi che auspichiamo di raggiungere.

Anatomia di un profilo Fake

Già prima della guerra e della pandemia i social network erano infestati da troll, fake, bot e disturbatori di varia natura, tuttavia negli ultimi tempi c’è stata una vera e propria invasione di natura chiaramente artificiale per disinformare, destabilizzare e provare a orientare l’opinione pubblica. Ma partiamo dall’inizio e cerchiamo di fare chiarezza.

Cos’è un fake?

Un fake – dall’inglese falso, contraffatto, alterato – è un profilo social fasullo creato con l’obiettivo di spacciarsi per qualcuno che non si è o per falsificare/nascondere la propria vera identità.

La prima vera distinzione da fare è sulla natura di chi crea un fake: possono essere persone reali oppure i fake possono essere opera di bot, programmati per compiere azioni simili a quelle di un essere umano. Questi fake bot – senza scendere troppo in tecnicismi – possono commentare, condividere, partecipare alle varie attività sui social media proprio come farebbe un profilo reale. Poiché sappiamo bene che gli algoritmi delle piattaforme social tendono a preferire i contenuti che “riscuotono successo” l’utilizzo dei fake bot può orientare l’opinione pubblica incrementando o diminuendo artificalmente la visibilità dei vari post.

L’altra categoria di fake, secondo me molto più pericolosa e odiosa, è quella costituita dai profili falsi creati da utenti reali, i quali si nascondono dietro account vuoti creati ad hoc per disinformare, disturbare, insinuare, diffondere fake news. In questi casi abbiamo persone in carne ed ossa (spesso molto capaci, competenti e dotate di grandi risorse) che provano deliberatamente ad alterare il dibattito pubblico. L’utente medio dei social – pensiamo a una zia over 70 – non riesce a individuare gli account falsi, quindi interagisce con loro ed è portato a ritenere veritieri i contenuti da questi condivisi. Si tratta di un circolo vizioso indotto strategicamente da chi ben conosce le dinamiche social e i meccanismi neurocomportamentali degli utenti social. Insomma, certe cose non capitano per caso.

Come riconoscere un fake?

Un occhio esperto riconosce immediatamente un fake, chi non lo è però può far attenzione a questi semplici consigli:

  • bio e descrizione del profilo poco curate, incomplete o addirittura inesistenti
  • tanti follower e pochi seguaci (following)
  • i seguaci a loro volta hanno una conformazione simile (tanti follower, pochi seguaci, niente bio)
  • pochi post, pochi commenti e bacheca vuota
  • i post vertono solo su un argomento

Successivamente è possibile aggiungere ulteriori controlli più specifici come l’analisi delle foto pubblicate e dei post pubblicati, lo scan della foto profilo, condivisioni e commenti. Tranquilli, è più semplice a farsi che a dirsi.

Esempio 1

Prendiamo Gian Pietro Matti che ha una forte simpatia per Putin proporzionale all’antipatia che prova per Zelensky come dimostra chiaramente il seguente commento.

Entrando nel profilo di Gian Pietro Matti possiamo osserva che trattasi di un maschio particolarmente solo. Non ha una foto. Non ha amici. Non pubblica nulla. Ci tiene a informarci che è maschio.

La sua unica attività è quella di insultare chi non è filorusso e glorificare il suo mito che è Putin.

Interessante notare poi che l’unico suo follower è un certo Nino il quale a sua volta non ha foto, amici, bio. Insomma un altro uomo solo.

Esempio 2

Un altro esempio di fake molto interessante, perché più sofisticato, è quello di Mary che a differenza dei precedenti amici compie un notevole salto di qualità e ci mostra la foto profilo e una bio, tanti amici e numerosi post.

Tuttavia Mary ha compiuto alcuni errori che saltano facilmente all’occhio, il più macroscopico di tutti è quello di aver utilizzato una foto profilo falsa e per scoprirlo è stato davverso semplice. Basta scaricare la foto sul proprio pc e poi inserirla nell’apposito servizio offerto da Google (Search Image) per scoprire che la stessa foto è stata utilizzata per decine di profili fake. Evidentemente al creator piacciono le donne mediterranee.

Ovviamente ogni profilo presente in questa lista è un fake matrioska che al proprio interno nascone tanti altri account falsi. Da quest’ultima immagine già è possibile intravedere la potenza del fenomeno: una sola persona può creare una rete immensa che se utilizzata con dovizia può ottenere risultati stupefacenti. Avete mai sentito parlare della “Bestia“, la macchina del fango e/o fabbrica di popolarità social della Lega ideata da Morisi? No? Dovreste…

Se Elon Musk fosse una scimmia

Elon Musk ha acquistato Twitter per 44 miliardi di dollari, pari a 54,20 dollari per azione. Ormai non è più una novità. Ciò che però ancora non sappiamo è che cosa ci fare Musk con Twitter? In molti infatti temono una perdita di autorevolezza della piattaforma e dei passi indietro nella lotta alle fakenews.

Twitter al momento è considerato il social più attendibile e maggiormente attento alla veridicità delle informazioni. Probabilmente è vero (su quale social cerchi notizie affidabili e breaking news?). Tuttavia non penso sia dovuto all’attuale governance o a qualche policy specifica che regolamenta Twitter meglio di quanto accada su Facebook.

Twitter è usato ogni giorno da 200 milioni di persone nel mondo. Facebook arriva a 1,86 miliardi, circa 10 volte di più. Gli utenti di Twitter in media sono più istruiti e hanno maggiori competenze digitali. Su Facebook c’è la qualunque. Di conseguenza mi pare ovvio che su Twitter ci siano meno fakenews e ci sia meno terreno fertile per populisti e propaganda (anche se c’è, eccome se c’è).

Mi viene da sintetizzare che sono le persone che rendono libere le piattaforme e non viceversa.

Se Musk aprirà le porte ai populismi, allargherà le maglie dei controlli antibufale – cioè trasformerà Twitter in un’altra Facebook – gli utenti attuali dell’uccellino ne prenderanno atto e probabilmente si sposteranno da qualche altra parte. Non bisogna concentrarsi sulle piattaforma, ma sugli utenti e lavorare affinché questi acquisiscano le giuste digital soft skills: è necessario stimolare e promuovere la cultura digitale. Che belle parole: cultura e digitale.

Chiudo con una riflessione di Emir Sader:

Se una scimmia accumulasse più banane di quante ne può mangiare, mentre la maggioranza delle altre scimmie muore di fame, gli scienziati studierebbero quella scimmia per scoprire cosa diavolo le stia succedendo.

Quando a farlo sono gli uomini li mettiamo sulla copertina di Forbes.