fbpx

Chissà chissà domani

Nell’eterna lotta tra tecno entusiasti e neo luddisti che in questi giorni ci deliziano con previsioni esaltanti o apocalittiche in base al carro che li ospita, io mi affido alle parole di Lucio Dalla il quale mentre i Russi sfidavano gli Americani si chiedeva “se riusciremo ancora a contare ancora le onde del mare”.

Come a voler dire che tra il volare spensierati avanti e il restare ancorati dietro, c’è un qui e ora tutto da vivere. Un presente in cui è totalmente inutile chiedersi se la tecnologia deve avere un ruolo nella società moderna, perché è inevitabile che lo ha e lo avrà. Ma si tratta anche di un presente che non può accettare un cambiamento così grande senza mitigare gli inevitabili – anch’essi – lati negativi.

Prendiamo l’intelligenza artificiale, sono anni, decenni, che svolge un ruolo propulsore fondamentale. Pensiamo alle tecnologie legate alla salute: avremmo mai superato la più grave pandemia (in termini quantitativi assoluti) in poco più di venti mesi senza l’AI? È quindi facile prevedere che il futuro prossimo vedrà un suo utilizzo ancora maggiore, ma ciò non risolve il nostro vero problema.

L’antropologo Adriano Favole ha coniato il concetto di Koinocene, un’epoca caratterizzata dal riconoscimento e dal rispetto dell’interdipendenza di tutte le forme di vita animate e inanimate presenti sul pianeta Terra. Una nuova era in cui l’essere umano saprà riconoscere la «somiglianza», la «comunanza», la «partecipazione», le «relazioni» (tutti termini racchiusi nel sostantivo greco koinotes e nell’aggettivo koinos) tra tutti gli esseri viventi e non viventi che abitano il pianeta.

Se ci pensiamo è esattamente ciò che stiamo vivendo e che ci pone davanti ad una grande sfida:

saremo in grado di realizzare una società in grado di offrire ai suoi membri un ambiente in cui vivere una vita dotata di senso?

L’augurio è che riusciremo in qualche modo a realizzare una forma di società saggia in cui l’utilizzo di dati, informazioni e conoscenze ci aiutino a prendere le giuste decisioni per migliorare la qualità di tutti gli aspetti della vita. Una società ecosostenibile che abbia a cuore il benessere di tutti attraverso uno sviluppo non solo economico, ma soprattutto sociale e culturale. Una società digitale in cui le tecnologie possano essere strumento di creazione di senso per l’esistenza umana.

Con la consapevolezza che si tratta solo di parole di speranza, un po’ di circostanza, un augurio cordiale, un’affettuosa pacca sulla spalla e con la rassicurante certezza che

l’anno che sta arrivando fra un anno passerà

perciò troviamolo adesso il tempo di vivere con serenità e pienezza ogni istante del viaggio. Buon 2023!

Se Elon Musk fosse una scimmia

Elon Musk ha acquistato Twitter per 44 miliardi di dollari, pari a 54,20 dollari per azione. Ormai non è più una novità. Ciò che però ancora non sappiamo è che cosa ci fare Musk con Twitter? In molti infatti temono una perdita di autorevolezza della piattaforma e dei passi indietro nella lotta alle fakenews.

Twitter al momento è considerato il social più attendibile e maggiormente attento alla veridicità delle informazioni. Probabilmente è vero (su quale social cerchi notizie affidabili e breaking news?). Tuttavia non penso sia dovuto all’attuale governance o a qualche policy specifica che regolamenta Twitter meglio di quanto accada su Facebook.

Twitter è usato ogni giorno da 200 milioni di persone nel mondo. Facebook arriva a 1,86 miliardi, circa 10 volte di più. Gli utenti di Twitter in media sono più istruiti e hanno maggiori competenze digitali. Su Facebook c’è la qualunque. Di conseguenza mi pare ovvio che su Twitter ci siano meno fakenews e ci sia meno terreno fertile per populisti e propaganda (anche se c’è, eccome se c’è).

Mi viene da sintetizzare che sono le persone che rendono libere le piattaforme e non viceversa.

Se Musk aprirà le porte ai populismi, allargherà le maglie dei controlli antibufale – cioè trasformerà Twitter in un’altra Facebook – gli utenti attuali dell’uccellino ne prenderanno atto e probabilmente si sposteranno da qualche altra parte. Non bisogna concentrarsi sulle piattaforma, ma sugli utenti e lavorare affinché questi acquisiscano le giuste digital soft skills: è necessario stimolare e promuovere la cultura digitale. Che belle parole: cultura e digitale.

Chiudo con una riflessione di Emir Sader:

Se una scimmia accumulasse più banane di quante ne può mangiare, mentre la maggioranza delle altre scimmie muore di fame, gli scienziati studierebbero quella scimmia per scoprire cosa diavolo le stia succedendo.

Quando a farlo sono gli uomini li mettiamo sulla copertina di Forbes.

Il vaccino è come l’assicurazione

Qualche giorno fa mi hanno rubato l’auto. È stata la prima volta e la cosa mi ha fatto riflettere molto.
Per esempio tutti, e dico tutti, mi hanno chiesto se fossi assicurato e alla mia risposta affermativa: “meno male, dai, è stata una brutta esperienza, ma almeno eri assicurato.
Ogni volta sorrido perché se c’è una cosa che tutti odiano è proprio l’assicurazione, gli assicuratori e i balzelli da pagare. Salvo poi tirare un sospiro di sollievo dopo un incidente.
Capiamoci. Si tratta di un evento normale, nel senso di umano, è cosi per tutti. Io di queste cose ci capisco poco, ma credo sia una questione che riguarda il nostro cervello e i concetti di tempo e percezione del rischio.
Prima di un incidente il nostro cervello tende a rimuovere gli eventuali rischi e a posporre nel tempo il problema: siamo sicuri che non accadrà e, nel caso che prima o poi dovesse accadere, quando sarà ci penseremo.
Da questo banale ragionamento ho pensato che più o meno facciamo la stessa cosa con tutto: i compiti a scuola, gli esami all’università, le lavatrici da fare, i panni da stirare e ovviamente i #VACCINI.
Ecco, il vaccino è come un’assicurazione prima di un incidente.
A differenza delle medicine che vengono assunte dopo l’insorgere della malattia (post incidente), i vaccini si portano dietro tutte queste menate neuro-psicologiche della propensione al rischio, percentuale costi/benefici, nesso causale ed effetti nel tempo.
In altre parole tutti coloro che si trovano in terapia intensiva a pancia sotto – se potessero – tornerebbero indietro per vaccinarsi e avere anche una possibilità in più di non doversi trovare in quella situazione. Ma ormai il tempo è passato e il cervello ragiona in questo modo perché sono cambiati i valori su cui basa le proprie decisioni.
Il nostro cervello è una macchina meravigliosamente complessa, ci fa credere che Caino e Abele abbiano dato avvio all’umanità (anzi solo Caino) e ci fa dubitare dei progressi della scienza.
È così, inutile arrabbiarsi con i no-vax, l’evoluzione umana da millenni è una corsa sulle montagne da russe. Le assicurazioni, i vaccini e le lavatrici da fare sono solo un modo per distinguere chi si evolve più in fretta e chi invece verrà ricordato dalla storia come un freno all’evoluzione della specie.
Ps. pure a me non piace pagare l’assicurazione e fare le lavatrici, ma ci tengo a non essere ricordato come un deficiente dai miei pronipoti.

Focus sul Parco Archeologico di Pompei

Intervista al prof. Massimo Osanna gentilmente rilasciata per il libro “Fundraising e marketing per i Musei“, Rubbettino Editore, anno 2020.

Massimo Osanna è professore ordinario di Archeologia classica all’Università di Napoli Federico II. Ha insegnato nell’Università della Basilicata, a Matera, dove ha diretto la Scuola di Specializzazione in Beni Archeologici; è stato visiting professor in prestigiosi atenei europei e ha promosso scavi e ricerche in Italia meridionale, Grecia, Francia. Dal 2014 al 2015 ha diretto la Soprintendenza Speciale di Pompei e nel 2016 è stato nominato direttore generale del Parco Archeologico di Pompei. Nel 2020 è stato nominato Direttore Generale dei musei del MiBACT.

Perché per un museo è importante il supporto del fundraising?

Un istituto culturale ha il compito di perseguire numerose finalità mediante le attività di conservazione, tutela, valorizzazione, ricerca e promozione dello sviluppo della cultura, al fine di garantire sempre la fruizione pubblica. Nel caso specifico del Parco Archeologico di Pompei, costituito da molteplici aree archeologiche e sedi museali, esso si trova a fronteggiare tutte le attività elencate, con eguale rilevanza, per ciascun sito afferente ad esso. Può accadere che, al fine di preservare e garantire l’integrità del patrimonio culturale, le attività di restauro, di manutenzione, di tutela e conservazione rivestano un peso rilevante rispetto alle altre. Il sostegno dei privati è auspicabile e acquista un peso determinante per il miglioramento e il potenziamento delle condizioni dell’accessibilità sia fisica che culturale alle aree archeologiche, per il sostegno di iniziative volte al servizio della società e del suo sviluppo. Questa opportunità consente agli istituti culturali di ricevere una spinta nella progettazione programmata di attività che non abbiano necessariamente il carattere di urgenza; di dare un’accelerazione alla promozione di iniziative che siano in linea con le esigenze culturali del momento, di determinate fasce di età e di pubblici diversi; di poter disporre di servizi culturali mancanti tra le offerte al pubblico, ma anche di potenziare la ricerca che spesso subisce gravi rallentamenti a fronte delle esigenze di tutela.

Perché un’azienda dovrebbe sostenere le attività o i progetti di un museo?

L’arte ha un incredibile impatto sugli individui, genera valore, desta consensi e curiosità; è dotata di un forte intrinseco potere attrattivo, per la sua capacità di agire direttamente sui comportamenti riveste un ruolo sociale ed educativo. Le aziende che decidono di sostenere progetti culturali ne sono consapevoli ma le motivazioni sono molteplici e diversificate.

Si decide di investire in cultura per rafforzare la Corporate Identity, per riposizionare il proprio brand, per attrarre altri target e pubblici. Ma può anche capitare che il progetto culturale sostenuto sia in linea con la mission dello sponsor. Diversa considerazione va fatta, invece, per gli imprenditori locali, alcuni dei quali sono spinti dal sentimento di voler restituire e soprattutto di rivestire un ruolo, dinanzi allo sguardo della comunità, nell’ambito della valorizzazione e della costruzione di processi socio-culturali del territorio di appartenenza.

Stiamo vivendo un periodo di grandi cambiamenti economici e sociali, grandi sfide ci attendono soprattutto per quanto riguarda la sostenibilità ambientale: secondo lei qual è il ruolo che i musei devono svolgere in un contesto del genere?

I musei e gli istituti culturali svolgono un ruolo strategico presso le comunità del territorio. Essi rappresentano i luoghi per la costruzione di identità e sono in grado di attivare forme di partecipazione attiva da parte della cittadinanza. Per questo motivo, il tema della sostenibilità ambientale va inquadrato nell’ambito del più ampio scenario dello sviluppo sostenibile della società, obiettivo che rientra nella mission del Parco Archeologico di Pompei.

Grazie alla rilevanza scientifica e culturale, i musei rappresentano punti di riferimento per le comunità del territorio, presso le quali godono di credibilità e di autorevolezza a seguito della funzione educativa che essi assolvono. I musei, dunque, assumono il ruolo di educatori sociali anche in merito al benessere della società e del suo sviluppo.

Per quanto riguarda le sfide in atto sulla sostenibilità ambientale e sull’emergenza climatica, è necessario che gli istituti culturali diventino essi stessi sostenitori di best practices attraverso la riflessione e l’innovazione dei modelli di gestione e funzionamento.

D’altronde i recenti cambiamenti climatici compromettono seriamente la salvaguardia del patrimonio culturale, la cui intrinseca vulnerabilità viene amplificata dalla violenza e all’imprevedibilità degli estremi fenomeni atmosferici. Si tratta, dunque, di un rischio che va fronteggiato anche dai soggetti preposti alla tutela dei beni culturali. Ma l’iniziativa di un solo soggetto non è sufficiente. I musei possono diventare luogo di raccolta, di divulgazione e di interazione delle azioni degli enti preposti alla definizione di politiche dello sviluppo sostenibile e di quelle dei soggetti privati che operano nel territorio. Soprattutto essi hanno la capacità di sensibilizzare le comunità di riferimento alla rigenerazione dei comportamenti individuali, attraverso la rilettura e la narrazione dei modi in cui queste ultime si sono relazionate nel tempo con il territorio di appartenenza.

Stiamo vivendo un periodo di grandi cambiamenti economici e sociali, grandi sfide ci attendono soprattutto per quanto riguarda la sostenibilità ambientale: secondo lei qual è il ruolo che i musei devono svolgere in un contesto del genere?

I musei e gli istituti culturali svolgono un ruolo strategico presso le comunità del territorio. Essi rappresentano i luoghi per la costruzione di identità e sono in grado di attivare forme di partecipazione attiva da parte della cittadinanza. Per questo motivo, il tema della sostenibilità ambientale va inquadrato nell’ambito del più ampio scenario dello sviluppo sostenibile della società, obiettivo che rientra nella mission del Parco Archeologico di Pompei.

Grazie alla rilevanza scientifica e culturale, i musei rappresentano punti di riferimento per le comunità del territorio, presso le quali godono di credibilità e di autorevolezza a seguito della funzione educativa che essi assolvono. I musei, dunque, assumono il ruolo di educatori sociali anche in merito al benessere della società e del suo sviluppo.

Per quanto riguarda le sfide in atto sulla sostenibilità ambientale e sull’emergenza climatica, è necessario che gli istituti culturali diventino essi stessi sostenitori di best practices attraverso la riflessione e l’innovazione dei modelli di gestione e funzionamento.

D’altronde i recenti cambiamenti climatici compromettono seriamente la salvaguardia del patrimonio culturale, la cui intrinseca vulnerabilità viene amplificata dalla violenza e all’imprevedibilità degli estremi fenomeni atmosferici. Si tratta, dunque, di un rischio che va fronteggiato anche dai soggetti preposti alla tutela dei beni culturali. Ma l’iniziativa di un solo soggetto non è sufficiente. I musei possono diventare luogo di raccolta, di divulgazione e di interazione delle azioni degli enti preposti alla definizione di politiche dello sviluppo sostenibile e di quelle dei soggetti privati che operano nel territorio. Soprattutto essi hanno la capacità di sensibilizzare le comunità di riferimento alla rigenerazione dei comportamenti individuali, attraverso la rilettura e la narrazione dei modi in cui queste ultime si sono relazionate nel tempo con il territorio di appartenenza.

Quali sono le tecniche vincenti per fidelizzare il proprio pubblico e conquistarne di nuovi magari di diverse fasce di età?

 La tecnica determinante e vincente è l’ascolto. Esiste una grandissima comunità desiderosa di sapere e di sentirsi parte della cultura del proprio territorio. La cultura acquista più consenso in un territorio quanto più si fonde con esso senza creare alterità. Questo comporta saper adottare linguaggi adeguati e nuove tecniche di narrazione, ma anche generare nuovi stimoli; significa saper essere flessibili ed organizzare percorsi culturali ed educativi a più livelli. Il verbo “educare” non è solo sinonimo di insegnare ma anche di formare. Pertanto l’educazione deve facilitare processi attraverso i quali le persone arrivino ad educare sé stesse. Un museo riesce a fidelizzare il proprio pubblico quando è capace di creare sentimento di appartenenza ad uno spazio fisico o metaforico, quando diventa il punto di riferimento di una comunità che individua in esso una leva per la crescita culturale e socio-economica del proprio territorio.

Breve ragionamento sulla trasformazione digitale

Si fa un gran parlare di trasformazione digitale, adozione di soluzioni innovative e framework basati su architetture e servizi in cloud. Tutte cose sicuramente utili e auspicabili. Ci giochiamo i prossimi vent’anni più o meno ed anche per questo tanta attenzione mediatica e politica stanno agitando, speriamo positivamente, le acque.
Con gli amici di Fare Digitale ne parliamo da anni di questi argomenti, spesso come dei novelli Don Chisciotte, Sancho Panza e i famosi mulini al vento; e proprio come i protagonisti ci siamo più volte trovati a battagliare contro i giganti della burocrazia italiana, della mancanza di cultura digitale, delle rendite di posizione che verrebbere smantellate dalla trasformazione digitale, che in realtà è una vera e propria trasformazione sociale.

Ma come rendere tutto questo realtà? Da dove partire per passare dalle parole ai fatti?
Alcuni credono, e anche io mi sento parte di questo gruppo, che particolare attenzione vada rivolta alle competenze – hard e soft – necessarie per dare spinta prima e linfa dopo al processo di digitalizzazione.

Viviamo un periodo di profonde trasformazioni in cui la pervasività del digitale determina nuove modalità di vita ad ogni livello. È un cambiamento epocale in cui si delineano nuovi fondamenti culturali: sistemi relazionali basati su network e molteplicità sincronica, lavoro che si configura sempre più come cognitivo, schemi ripetitivi dei processi lavorativi sostituiti dalla continua innovazione. Ed è quindi ovvio e consequenziale che le competenze richieste siano in evoluzione e sempre più pietra angolare del processo di cui stiamo discutendo.

Nella digital society il capitale umano ha un valore strategico e lo avrà sempre di più nei prossimi dieci anni e non solo per tutto ciò che concerne le ICT, ma anche e soprattutto perché è un discorso trasversale a tutti i settori dell’economia. Da un lato quindi dobbiamo fare in modo che i nostri giovani si avvicinino a lauree e diplomi tecnici per aumentare il numero di esperti informatici con competenze avanzate, ma contemporaneamente dobbiamo creare anche una platea, numerosa e competente, di “esperti non tecnici” che devono utilizzare app e piattaforme, comprenderle a fondo per sfruttare tutto il potenziale, dare le linee di indirizzo ai primi che poi dovranno svilupparle e realizzarle.
La bella ricerca Digital @University realizzata del team di Gianluca Arnesano in Fare Digitale va proprio in questa direzione: la prima indagine sulla formazione digitale nel sistema universitario italiano. La formazione, la valorizzazione del capitale umano, la riqualificazione delle competenze sono prioritari e devono essere permanenti per poter essere di supporto effettivo allo sviluppo economico dell’intero paese.

Sembra un paradosso, e forse lo è davvero, ma le competenze digitali oggi in Italia sono una merce rara. In una società che vuole essere proiettata verso la trasformazione digitale si tratta dell’ennesimo ostacolo che ci rende poco competitivi all’interno dello scenario globale.

Trovandoci in questa condizione è necessario allargare lo sguardo e porsi una mission ambiziosa: fare cultura digitale.

Il digitale non è solo codice. Ogni settore ha una dimensione immateriale. Ogni lavoro, ogni professione da qui in avanti (tralasciando il fatto che siamo indietro di qualche lustro) non potrà prescindere dal digitale.

Per dare una forte accelerata sul digitale occorre però investire su chi ha le competenze per abilitarlo. Non solo quindi developers, ma anche professionisti di materie non STEM coinvolti nei processi ICT e nelle iniziative di trasformazione digitale. Servono urbanisti digitali per indicare cosa serve per rendere smart le nostre città e di agrotecnici innovatori per migliorare il rendimento del settore agricolo. Figure a cavallo tra tecnologia e business, esperti di settore e capaci di leggere dati e impostare algoritmi.

Più cultura digitale, ma anche la forte necessità di ripensare il modello di leadership e management in ottica digitale adottando criteri oggettivi, produttivi e sostenibili, sapendo identificare anche i lati oscuri e gli aspetti più problematici legati alla trasformazione digitale.
La sfida è epocale, me ne rendo conto. Non è semplice avviare processi di valorizzazione di capacità e competenze non chiaramente misurabili, o perlomeno non misurabili con i canoni aziendali tradizionali. Togliere i faldoni e eliminare la carta è solo la punta dell’iceberg (attenzione ai venditori di fumo e ai fantomatici guru digitalizzatori). La partita si gioca nel dotare il sistema paese di un capitale umano adeguato per la trasformazione digitale, nello sviluppo di un mindset digitale capace di cogliere tutti i benefici e di evitare gli ostacoli. Tutto ciò però richiede investimenti, visione, coraggio e cambiamenti strutturali e culturali non facili e non realizzabili in tempi veloci, o almeno non così veloci da permetterci di stare al passo con le dinamiche di diffusione globale dell’innovazione tecnologica e dei modelli economici che al digitale sono associati. Il rischio di perdere un’opportunità storica è reale, ma non per questo dobbiamo gettare la spugna ancor prima di scendere in campo.

La sfida è epocale, me ne rendo conto, ma abbiamo l’obbligo di provarci mettendoci tutto l’impegno e la forza che abbiamo in corpo.