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Chi sono

Founder 3d0 – Docente LUMSA – Presidente Fare Digitale – Papà orgoglioso.

Il digitale è un fattore di cambiamento, ma non è il cambiamento. Il mondo lo cambiano le persone.

Mi chiamo Gabriele Granato, ho iniziato ad appassionarmi alle tematiche economiche e sociali da giovane liceale. Avevo 15 anni e da quel momento la voglia di comprendere le dinamiche che muovono il mondo e studiare la cultura d’impresa è rimasta ancora oggi intatta. Amo tutto ciò che riesce a migliorare la vita delle persone e credo fortemente nel digitale come leva di sviluppo equo e sostenibile.

Il mio lavoro ruota interamente attorno al digitale: nel 2012 ho fondato la 3d0 | digital factory specializzata in soluzioni IT, sviluppo e comunicazione digitale. Ricopro con entusiasmo e passione il ruolo di responsabile marketing & digital per varie istituzioni culturali e museali. Svolgo docenze presso università ed enti privati relativamente alle tematiche inerenti la trasformazione, la cultura e l’alfabetizzazione digitale.
Negli ultimi mesi ho avuto la fortuna di incontrare centinaia di giovani studenti ed ho imparato da loro molto di più di ciò che gli ho insegnato!

Da ottobre 2020 sono il Presidente di Fare Digitale, associazione che si pone l’obiettivo di valorizzare e promuovere le diffusione della cultura digitale in Italia. Fare Digitale crede nella diffusione consapevole delle tecnologie digitali in tutti i settori della vita pubblica e privata, così da essere una leva fondamentale per lo sviluppo economico, culturale e sociale del Paese.

Insegno “Web Marketing e comunicazione digitale” all’università LUMSA presso il dipartimento di Marketing e digital communication.

I miei libri

Ho scritto il libro “L’inestimabile Valore – Marketing e fundraising per il patrimonio culturale” (Gabriele Granato e Raffaele Picilli) edito da Rubbettino nel 2019. “Fundraising e Marketing per i musei” (Gabriele Granato e Raffaele Picilli) edito sempre da Rubbettino pubblicato nel mese di dicembre 2020. 

Nel mese di novembre 2022 è stato pubblicato il libro “Trasformazione digitale e competenze per la network society” edito da FrancoAngeli e curato dalla professoressa Maria Prosperina Vitale e il professore Davide Bennato, all’interno del quale è presente un contributo scritto da me e dall’amico Michele Aponte dal titolo “Alla ricerca di un’alleanza digitale tra tecnici e umanisti“.

Gabriele Granato

 

 

Post Social Media Era

Facebook, Instagram e Twitter non sono morti, ma ormai è evidente che le persone preferiscono trascorrere il tempo online in maniera molto diversa da come accadeva sui social negli anni Dieci. Il report Rival IQ ce lo conferma chiaramente:

  • i tassi di coinvolgimento sono in netto calo, addirittura IG ha registrato -30%
  • la frequenza di pubblicazione è crollata di oltre il -20%
  • Twitter ha chiuso l’ultimo trimestre del 2022 con una perdita dei ricavi del 35%
  • per la prima volta dopo circa 20 anni Facebook perde utenti

Sintesi: il modello tradizionale dei social media non è più attrattivo sia tra le generazioni più giovani, che non ne hanno mai capito davvero il fascino, sia tra chi è stato un early adopter e oggi ha sempre meno voglia di usarli, se non in modo passivo.

 

«Sono sicura di non essere l’unica utente che si è ritrovata a rifuggire dall’abitudine molto pubblica, spesso performativa e persino stancante, di pubblicare regolarmente aggiornamenti su Facebook e Instagram» (Lauren Goode – Wired)

A mio parere ciò sta accadendo perché sta venendo a galla una contradizione di fondo che ci portiamo indietro da sempre: all’inizio i social sono nati con lo scopo di collegare le persone, farle ritrovare dopo tanto tempo (quanti compagni di scuola rivisti grazie a Facebook) e infatti si utilizzava il termine Social Network. Poi ad un certo punto – per vari motivi tutti legati a profitti e business – le piattaforme hanno virato dal networking al publishing, offrendo alle persone la possibilità di pubblicare contenuti e raggiungere il pubblico più ampio possibili ben oltre le loro reti di contatti diretti. Ed ecco che siamo passati da Social Network a Social Media.

Siamo nati come puntini da interconnettere e poi ci siamo trasformati in creatori di contenuti.
Ultimamente a questa dinamica di lungo periodo se sono aggiunte altre tre davvero dirompenti: la noia, la sovraesposizione del dolore, l’esigenza d’approfondimento.

1. Noia

Nati come “luogo” di svago e divertimento i social hanno esaurito la loro forza originale; è davvero raro trovare contenuti divertenti, ancora più raro che una navigazione social ci sorprenda, quasi impossibile che una campagna social sia così dirompente da scavallare in tv o in radio come accadeva 5 o 10 anni fa. Tanto è vero che i giovani, cioè il target che ha voglia di divertirsi, sui social tradizionali non ci sono.

2. Sovraesposizione del dolore

Poiché le persone non frequentano più i social per divertirsi, poiché noiosi, gli algoritmi hanno iniziato a premiare in modo sproporzionato le emozioni opposte: dolore, rabbia, fallimento dando una visibilità enorme a tutta una serie di contenuti morbosi che parlano di malattia, morte, violenza e sofferenza. Seguendo la scia della tv del dolore questa strategia social all’inizio ha pagato molto bene. Oggi non più. Le persone sono stufe di trovare ogni giorno nel proprio stream notizie di questo genere.

3. Approfondimento

La rinascita delle newsletter e la rivincita dei post lunghi è il chiaro sintomo di un’esigenza che abbiamo per troppo tempo tenuta nascosta in soffitta: per capire qualcosa bisogna approfondire, prendersi del tempo, ragionare e metabolizzare. Tutti comportamenti osteggiati dalle piattaforme social che invece hanno bisogno, per sopravvivere e crescere, di instant marketing, contenuti veloci, tante ads e poche chiacchiere.


La tendenza quindi è chiara però attenzione a cantare il requiem. Anche se le piattaforme principali non sono più di tendenza ciò non significa necessariamente che perdano di longevità. Facebook potrebbe sembrare morto perché i giovani non si sognerebbero mai, oggi, di postare un album di foto di una serata di festa, tuttavia ci sono ancora circa 2 miliardi di persone in casa Zuckerberg.

Per dirla in breve siamo ormai entrati nell’Era Post Social Media, ma come sarà realmente questa ERA lo scopriremo solo vivendola.

Post Social Media Era
Post Social Media Era

Chissà chissà domani

Nell’eterna lotta tra tecno entusiasti e neo luddisti che in questi giorni ci deliziano con previsioni esaltanti o apocalittiche in base al carro che li ospita, io mi affido alle parole di Lucio Dalla il quale mentre i Russi sfidavano gli Americani si chiedeva “se riusciremo ancora a contare ancora le onde del mare”.

Come a voler dire che tra il volare spensierati avanti e il restare ancorati dietro, c’è un qui e ora tutto da vivere. Un presente in cui è totalmente inutile chiedersi se la tecnologia deve avere un ruolo nella società moderna, perché è inevitabile che lo ha e lo avrà. Ma si tratta anche di un presente che non può accettare un cambiamento così grande senza mitigare gli inevitabili – anch’essi – lati negativi.

Prendiamo l’intelligenza artificiale, sono anni, decenni, che svolge un ruolo propulsore fondamentale. Pensiamo alle tecnologie legate alla salute: avremmo mai superato la più grave pandemia (in termini quantitativi assoluti) in poco più di venti mesi senza l’AI? È quindi facile prevedere che il futuro prossimo vedrà un suo utilizzo ancora maggiore, ma ciò non risolve il nostro vero problema.

L’antropologo Adriano Favole ha coniato il concetto di Koinocene, un’epoca caratterizzata dal riconoscimento e dal rispetto dell’interdipendenza di tutte le forme di vita animate e inanimate presenti sul pianeta Terra. Una nuova era in cui l’essere umano saprà riconoscere la «somiglianza», la «comunanza», la «partecipazione», le «relazioni» (tutti termini racchiusi nel sostantivo greco koinotes e nell’aggettivo koinos) tra tutti gli esseri viventi e non viventi che abitano il pianeta.

Se ci pensiamo è esattamente ciò che stiamo vivendo e che ci pone davanti ad una grande sfida:

saremo in grado di realizzare una società in grado di offrire ai suoi membri un ambiente in cui vivere una vita dotata di senso?

L’augurio è che riusciremo in qualche modo a realizzare una forma di società saggia in cui l’utilizzo di dati, informazioni e conoscenze ci aiutino a prendere le giuste decisioni per migliorare la qualità di tutti gli aspetti della vita. Una società ecosostenibile che abbia a cuore il benessere di tutti attraverso uno sviluppo non solo economico, ma soprattutto sociale e culturale. Una società digitale in cui le tecnologie possano essere strumento di creazione di senso per l’esistenza umana.

Con la consapevolezza che si tratta solo di parole di speranza, un po’ di circostanza, un augurio cordiale, un’affettuosa pacca sulla spalla e con la rassicurante certezza che

l’anno che sta arrivando fra un anno passerà

perciò troviamolo adesso il tempo di vivere con serenità e pienezza ogni istante del viaggio. Buon 2023!

Le digital soft skills per cercare lavoro

Digital soft skills: un tema ancora poco dibattutto. In Italia infatti ci sono circa 16 milioni di persone in età lavorativa senza occupazione. Tranquilli, la gran parte di queste non cerca e non vuole lavorare. La restante parte invece deve farci preoccupare un po’ di più, perché si tratta di circa 5 milioni di persone che possiamo suddividere in 3 gruppi:

  • esperti, che già hanno lavorato in precedenza
  • inesperti, che non hanno mai lavorato
  • scoraggiati, vorrebbero ma non cercano neanche più

Dall’altra parte ci sono le aziende che avrebbero bisogno di assumere – si parla di una richiesta di oltre 2 milioni di posti di lavoro – ma non trovano le giuste competenze sul mercato del lavoro.

Perché c’è questo mismatch tra domanda e offerta, che rallenta la ripresa economica italiana?
I motivi sono tanti e ognuno probabilmente “legge” il fenomeno in base al proprio punto di vista: imprenditore, professionista, dipendente, studente, disoccupato.

Ma la domanda fondamentale è un’altra:
è possibile nel breve periodo far incontrare la domanda e l’offerta di lavoro?

Su questo sono abbastanza netto: NO! Nell’immediato non è possibile.

Ma non dobbiamo arrenderci. Oggi infatti possiamo creare le condizioni affinché in 3/5 anni questo dislivello possa essere attenuato, in modo tale che il sistema-paese possa affrontare con vigore la transizione ambientale e digitale in corso.
Nel concreto:

  1. lavorando sulle digital soft skills e le competenze trasversali: i ragazzi/studenti devono sapere che ogni 5 anni cambieranno lavoro e dovranno imparare, anche ex novo, continuamente nuove cose
  2. rendendo più flessibile l’entrata e l’uscita dal mondo del lavoro: no, non è precariato e sarebbe una misura che andrebbe a favore dei lavoratori
  3. detassando il lavoro “utile e sostenibile” (non è possibile che un’azienda che impatta 0 sull’ambiente investendo nella ricerca, paghi le stesse tasse di un’industria che fonde a carbone)

Digital soft skills

Crowdfunding culturale: origini e prospettive

Il crowdfunding culturale esiste grazie al digitale. O meglio esiste grazie alle opportunità, agli strumenti, alle dinamiche sociali e alle relazioni generate nella digital society.

Il crowdfunding è sempre esistito, intendiamoci, ma la sua forza e la sua utilità ha preso forma solo quando i social network, le tecnologie digitali e in particolare le piattaforme web che consentono la raccolta di denaro si sono evoluete e hanno creato le condizioni per la sua diffusione e efficacia.

Il termine crowdfunding viene dall’inglese crowd folla e funding finanziamento ed è possibile definirlo come un processo di finanziamento dal basso: un gruppo di persone decide di mettere in comune il proprio denaro per sostenere una buona causa. Il digitale e le piattaforme web sono gli strumenti che permettono l’incontro tra i soggetti che devono raccogliere fondi e gli eventuali sostenitori/donatori. Se questo processo viene organizzato e promosso da un’istituzione culturale – organizzazioni che per loro natura sono particolarmente innovative, con un forte impatto sociale e in grado di contaminare altri settori in maniera creativa – ecco che siamo in presenza del cosiddetto crowdfunding culturale.

Senza dubbio stiamo parlando di uno strumento che negli ultimi tempi va “molto di moda“.

Tanti lo sponsorizzano, tanti sbandierano campagne formidabili, in realtà bisogna ammettere che (in Italia) non abbiamo capito ancora bene a cosa serve e come funziona, tanto è vero che i casi di reale successo si contano sulle dita di mezza mano.

Il problema vero è che il crowdfunding viene tirato fuori come il coniglio dal cilindro quando le organizzazioni hanno bisogno di soldi. Niente di più sbagliato. Il crowdfunding è davvero efficace solo se l’organizzazione è già predisposta ad attività di fundraising e la sua comunicazione è orientata alla richiesta di sostegno. Non sono cose che si improvvisano. Le giuste motivazioni che invece dovrebbero spingere i musei alla scelta del crowdfunding culturale sono le opportunità di branding e marketing legate a queste attività, certamente anche la fattibilità economica e gli obiettivi finanziari, ma come prima cosa deve esserci la forte volontà di creare e/o di ampliare una community di fiducia, in coerenza con la mission del museo.

Il processo dal basso del crowdfunding ha come obiettivo proprio di rafforzare in modo più esteso e capillare il senso di appartenenza della comunità al museo e alla sua progettualità e consente di accendere la curiosità e l’interesse dei non abituali frequentatori, risultando particolarmente efficace per i musei più piccoli e quindi bisognosi di cure, attenzioni e sostegno.

In altre parole il crowdfunding culturale non può e non deve essere inteso come mero strumento finanziario, ma anche e soprattutto come leva di marketing, comunicazione e branding a sostegno dei musei. Il crowdfunding, se inserito in maniera fluida nella strategia di gestione del museo, è certamente un acceleratore di un processo di rete, digitale e fisica, che lega l’istituzione alla propria comunità, visitatori, stakeholder, sostenitori e sponsor che abitano l’ecosistema culturale.

Queste considerazioni, molto meglio articolate dall’amico e docente di fundraising Raffaele Picilli, è possibile trovarle anche nel libro “Fundraising e marketing per i musei” edito da Rubbettino che abbiamo scritto nel 2020 nel quale raccontiamo anche vari esempi di campagne di crowdfunding culturale.

crowdfunding culturale

Destinazione metaverso: idee per un nuovo marketing turistico

Confesso subito di non essere un fan del “metaverso a tutti i costi“, anzi sono molto critico scorgendo molti, troppi lati negativi – diretti e indiretti – della moda metaversiana. D’altra parte è impossibile ignorare le opportunità di questo nuovo spazio digitale in cui le persone interagiscono tra loro in tempo reale vivendo esperienze simili a quelle che è possibile fare nel mondo fisico.

E senza alcun dubbio, un ambito in cui è interessante notare gli impatti del metaverso è il turismo. La domanda turistica per sua natura si alimenta di esperienze sempre nuove e originali ed è fisiologico che la rete e le tecnologie informatiche sin dal principio hanno rivoluzionato, e probabilmente lo faranno sempre di più, le dinamiche turistiche e la catena del valore che lega destinazioni, esperienze, intermediari turistici e viaggiatori.

In questo scenario il marketing turistico non può restare fermo a guardare, ma anch’esso si trasforma poiché la combinazione di realtà virtuale, realtà aumentata e mista rivoluziona le esperienze turistiche prima, durante e dopo che il turista abbia vissuto l’esperienza stessa. La realtà virtuale consente agli utenti di vivere esperienze coinvolgenti all’interno di ambienti artificiali. La realtà aumentata, come dice la parola, aumenta gli spazi fisici fornendo informazioni utili ai turisti sui dispositivi tecnologici degli utenti. La realtà mista introduce un livello intermedio che rende l’esperienza molto realistica, che spesso l’utente non riesce a distinguere il contenuto virtuale dagli oggetti fisici.

Se a tutto questo aggiungiamo la gamification ci appare evidente come tali tecnologie possano essere una grande opportunità di marketing creativo, offrendo alle destinazioni, ai musei e agli operatori turistici la possibilità di guidare i visitatori in nuovi territori e fargli vivere nuove esperienze.

Il metaverso (con tutti i suoi limiti, difetti e lati oscuri) è quindi una leva abilitatrice di opportunità enormi per il marketing turistico e l’industria dell’ospitalità.

La possibilità di immaginare e disegnare un universo parallelo, nel quale utilizza la potenza di calcolo e i nuovi dispositivi tecnologici per valorizzare gli spazi fisici, prodotti e servizi turistici, è certamente uno strumento di marketing potentissimo per creare valore.

Ormai è conclamato che i turisti operano e interagiscono sia online che offline prima, durante e dopo il viaggio. A noi resta da capire come il metaverso possa intercettare i loro desideri, soddisfare i loro bisogni e realizzare esperienze accessibili. Ed è qui che emergono le vere difficoltà ed enormi ostacoli. C’è anche da dire che gli investimenti stanno raggiungendo cifre astronomiche e l’evoluzione tecnologica perfeziona ogni giorno strumenti e processi, sperimentando prototipi, lanciando numerosi progetti (moltissimi fallimentari, dobbiamo dirlo) e cercando di risolvere i tanti problemi di interoperabilità tra sistemi diversi.

In ogni caso l’impatto del metaverso sul turismo, inteso come insieme di strumenti e tecnologie, non può essere più sottovalutato. Innovativi strumenti di marketing sono a nostra disposizione per trovare nuovi processi lungo la catena del valore dell’utente e noi abbiamo il compito di interrogarci su come integrarli per supportare e migliorare la competitività dell’ecosistema turistico, delle destinazioni e degli operatori.


NB. il tema metaverso ultimamente è molto dibattuto e si è creata la solita battaglia tra fautori entusiasti e accaniti oppositori. Per restare aggioranti sul tema consiglio di seguire la voce che ritengo più equilibrata ed esperta nel campo, Fabio Lalli e il suo canale Telegram sul MTVRS.

Marketing turistico e metaverso